“... dove l’aquila innalza il suo volo”


Biografia:

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Classe 1961,vive e lavora a Torino, sposato.
  Unitamente alla montagna, frequentata con più assiduità nel recente passato quando l’allenamento permetteva di affrontare le salite con minor fatica, quella della lettura e della scrittura sono da sempre state grandi passioni. Tra gli autori preferiti Pavese, Arpino, Rigoni Stern e  Mauro Corona. Per quanto riguarda la scrittura, solo da un paio d’anni a questa parte, eccezion fatta per qualche sporadico episodio precedente, ha tirato fuori il sogno dal cassetto; ha così inviato testi sia in versi sia in prosa ai premi letterari e ottenuto, oltre a segnalazioni e menzioni quali ad esempio i premi “Il racconto ritrovato”, “Casentino”, “Campagnola”, “Verba Agrestia”,  il primo posto al  concorso di poesia “Coniugi Boccaccio” di Grillano e il terzo posto al “premio Marello” di Torino nel 2008 nonché il secondo posto al concorso “Arno fiume di pensiero” e il terzo posto “Targa Apice al Merito Poetico” nel 2009.
  La poesia è anzitutto ascolto interiore, quindi ricerca, impegno nella rilettura e nella strutturazione: raramente l’improvvisazione viene accettata tale e quale nella stesura finale.
Sebbene fondati su elementi descrittivi/paesaggistici, il significato e la trama dei versi perdono talvolta la loro corporeità in quanto traslati nell’immaginario o nel ricordo, momenti che spesso riflettono un pessimismo dominante.
 

 

Commento critico:


Non è un caso che tra gli autori preferiti da Giorgio Baro si trovino, fra gli altri,  Rigoni Stern e Mauro Corona; riferimenti robusti, rocciosi, di cieli tersi e sguardi tra le montagne innevate dove l’aquila alza il suo volo. Lassù, dove “la nebbia ricama la luce sul colle e rovesci di vento sfidano l’acqua”  si aggirano i versi di Baro,  tra mandrie all’alpeggio e gerle sfibrate dal ghiaccio, tra memorie dissepolte dal tempo e “farfalle di parole volate”
E qui, tra le memorie dissepolte, il viaggio si fa ascolto e dolenza, l’esistenza s’ingarbuglia nella matassa d’immagini che riaffiorano, afferrano il ciglio dell’esistenza, vibrano nei cordami dell’essere.  L’equilibrio è altrove, improvvisamente svanito, evaporato nelle lontananze del tempo, “come volo di falene nelle voragini della sofferenza”.
Ma è sempre dominio di pascoli e montagne; lo scoprirsi parte di questo mondo, e farsene  ragione di vita, di pensiero, di andature lente misurate nella cadenza di un dolore latente.  Poi nello stesso tempo ci si accorge che quel mondo, come direbbe Cesare Pavese “è faccenda altrui”,  non  ci appartiene più , si è estraniato, lo sguardo è uno sguardo ancestrale, ereditato dagli avi,  riscoperto nelle baite diroccate dalle intemperie, abbandonate da troppi  inverni al gelo e alla neve. Resistono le macerie e i ricordi, i contrasti che lacerano e generano illusioni; ci sono ancora braccia per comporre fascine di legna e cani per riportare le manze alla transumananza  ma, intanto, si scava nella “voragine della sofferenza” e ciò che resta è il tetto di una baita  “sventrato a ponente”.


(Commento di Pier Luigi Coda)

 

LA SILLOGE

 

Equilibrio

Ti annientano le favole sul video,
quasi tappeti di bugie per rotolarci
stordimento e ridere al solletico
di anime lunghe che trapassano
lo schermo e sul divano siedono
come amici di partite senza fine.
Hai le mani che la vita schiaffeggia,
screpola, graffia, e poi ti restituisce
perché non hai sofferto tutto o forse
perché tu possa scegliere da solo
se ancora e quanto conscio scavare
nella voragine della sofferenza.
Farfalle di parole sono volate
indefinite - come volo di falene -
lungo i giorni di forze giovani
tanto da non piegare mai le reni:
sei stato tu, allora - sei tu adesso -
sul filo della vita a fissare il sole,
vorrei che ne avessi l’equilibrio giusto.

La baita del nonno

Piedi puntati a frenare il pendio
erba sdrucciola di brina sottile,
un segno divino la sosta al pilone
della santa dalla veste svanita
nella rivolta di demoni e fiamme;
freddo e buio la baita dal tetto
sventrato a ponente - troppa neve
e troppi inverni con il fuoco spento -
sulla terra battuta del pavimento
la gerla sfibrata dal ghiaccio punta
il suo scheletro di aghi di riccio.
Capelli d’argento lo specchio cercato
dov’era il chiodo vicino alla fonte;
rovesci di vento che sfidano l’acqua,
la nebbia ricama la luce sul colle,
duri gli zoccoli impressi nel prato
di strame rappreso dalle stagioni.
Avrò braccia per comporre fascine
ai piedi del bosco, e mani precise
per vestire di pietra i muri piegati;
come un tempo chiamerò i cani
a riportare le manze dal pascolo
e avrò voce per resistere i passi
raccontandomi un sogno di gelo.
Lo saprò fare, lo devo a mio nonno.

Magici fuochi

Il fienile una bocca spalancata
pericolante e astratta,
le formiche volanti nella calura
mordono voli noiosi,
le bucce di frutta
fresche di sugo sospettano
una passeggera presenza.
Contro il muro ingrassano ortiche
voraci a succhiare l’umidità
di gronde crepate.

Qualche notte torna impalpabile
la passeggera presenza
e si confonde alle lucciole
che sciamano magici fuochi.

I colori delle dune      

Orizzonti di sabbia e rocce taglienti,
cespugli di rovi la sosta del gregge;
la polla preziosa, le veglie al fuoco,
gesti lenti nelle parole per misurare
un altro domani.
Odora di pelle di capra il giaciglio
diviso coi cani, una voragine il cielo
 - apoteosi di stelle il suo immenso
che come calice verso svapora ora
vaghe speranze.
Le fughe feriscono lo sguardo lungo
quando supera l’ignoto dei monti,
e sorvola i burroni, e si schianta
davanti al mare.
Così il confine già stringe alla gola
come un groppo maligno, il confine
arsura di cenere sopra le oasi
rivela da secoli l’essenza amara
per sopravvivere.
                                                          
Sotto un vento che taglia la faccia
storto cammini l’asfalto di buche
e disprezzo; più alte delle palme
le ciminiere qui graffiano il cielo.
In un angolo stendi coperte pulciose;
solitudine e gelo la notte, i sogni,
i colori bruciati.
Alle spalle il tramonto riflette magico
quarzi finissimi - a palpebre chiuse
un’ossessione di aghi; l’ultimo sole
è una lacrima che sfumerà i toni

rubati alle dune.
un altro domani
vaghe speranze
davanti al mare,
per sopravvivere
i colori bruciati
rubati alle dune

Meditazioni in ottobre

Respirando il colore ramato dei pascoli
cammino incontro alla mia insofferenza;
autunno di foglie secche e boccioli
sui crisantemi, autunno di assenze
che sollecitano meditazioni interrotte
in un breve apparire.
Rigurgito d’affetto il latte materno,
amara consistenza da suggere: e baci,
e convinzioni e noia per ordinare incontri
in un avvenire di pugni mai dati, ritorni
ed equilibri sospesi nel sospettare
passi dietro la porta.

Sui volti di ieri fantasie abbozzate
quasi falesie che l’oceano schiaffeggia;
seduto a schiacciare paure di pelle
cerco gli appigli tra rughe di roccia
ma confondo tracce sicure nel gorgo
di voci e singhiozzi.
Dai volti di oggi rifuggo discreto,
un’oppressione gli sguardi perplessi
che mi scrutano nudo; il mio male
non sanno, forse ritardano la panacea
di un sorriso, un’antica stanchezza
mostrarsi e tacere.
In fondo, però, di questo dimenticare
io vado fiero. Più non scommetto alle carte
né segno con l’unghia la matta sul dorso;
quando leggo il destino scopro figure,
le accoppio e sovverto presagi per quanti
si fermano accanto.
Duri diverbi e coscienze, in alcuni
lo sfogo che sulla cote affila il pugnale
- anch’io ho esaltato violenze ben oltre
lo stizzato inveire. Dal tempo ferito
il primitivo abbandono che liberano
tramonti di solitudine.

Annuso boschi di neve, rami spezzati
e resine rapprese che colano il tronco;
ma tra le dita un flusso di ore remote
raggela come il remoto pretendere
il paesaggio dissolto, come scorrere
confidenze impossibili.
Nei volti di domani l’espressioni stinte
di una messa da requiem, le linfe
che aggrinziscono foglie o fioriscono
i crisantemi, il succedere che imbroglia
la concezione di essere. Così, sfinito,
mi cammino incontro.

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