Un paese ha i suoi silenzi, come la poesia...”


Biografia:

Fabio Franzin è nato nel 1963 a Milano. Vive a Motta di Livenza, in provincia di Treviso. Ha pubblicato le seguenti opere di poesia

Nel dialetto Veneto-Trevigiano dell’Opitergino-Mottense:
El coeor dee paroe
, Roma, Zone, 2000, prefazione di Achille Serrao.
Pare (padre), Spinea, Helvetia, 2006, introduzione di Bepi de Marzi.
Mus.cio e roe (Muschio e spine), Sasso Marconi, Le voci della luna, 2007, 2a ed. 2008, introduzione di Edoardo Zuccato, “Premio S. Pellegrino Terme 2007”, “Superpremio Insula Romana 2007”, “Premio Guido Gozzano 2008”,  Fabrica, Borgomanero, Atelier, 2009, 2a ed. 2010, “Premio Pascoli 2009”, “Premio Baghetta 2010”.
Rosario de siénzhi (Rosario di silenzi – Rožni venec iz tišine), Postaja Topolove, 2010, edizione trilingue con traduzione in sloveno di Marko Kravos. Siénzhio e orazhión (Silenzio e preghiera), prefazione di Franca Grisoni, Motta di Livenza, Edizioni Prioritarie, 2010.
Co’e man monche (Con le mani mozzate),Milano, Le voci della luna, 2011, con prefazione di Manuel Cohen, Premio “Achille Marazza 2011”,
Fabrica e altre poesie, Borgomanero, Ladolfi Editore, 2013, con il saggio introduttivo La solitudine del “cittadino globale” di Giuliano Ladolfi.
Bestie e stranbi, Martinsicuro, Di Felice edizioni, “I poeti di Smerilliana”, postfazione di Matteo Vercesi, 2013.
  In lingua
Il groviglio delle virgole, Grottammare, Stamperia dell’arancio, 2005, premio “Sandro Penna 2004 sezione inedito” con introduzione di Elio Pecora.
Entità, in E-book, Biagio Cepollaro E-dizioni, 2007.
Canti dell’offesa, Cesena, Il Vicolo, con introduzione di Gianfranco Lauretano, 2011.
In lingua e dialetto:
Margini e rive, Città Nuova, Roma, 2012. Nota di Daniele Piccini.
*
Nel 2009, La rivista Atelier gli ha dedicato, monograficamente, il n°53. Nel 2010 ha vinto il premio “Giacomo Noventa – Romano Pascutto”, e nel 2012 il premio “Tito Maniacco”. Sue poesie, accolte in molteplici riviste in Italia e all’estero, sono state tradotte in inglese, francese, cinese, arabo, tedesco, spagnolo, catalano e sloveno.

 

 

Commento critico:

Fabio Franzin: poeta per sottrazione
...sottrarre significa sempre che qualcosa è stato tolto per poi scoprire che quel "tolto", quel
"sottratto" è necessario in virtù del fatto che "manca"...
Ecco, la poesia Fabio, ha l'imperativo della "necessità"...


Mi sono imbattuta in Fabio Franzin che è stato definito “poeta per sottrazione”, in una mattina di aprile copiosa di pioggia che, rispettando l’adagio classico di una primavera pazzerella, nello stesso tempo ne invera e consolida le bizzarrie stravolta com’è nelle viscere, dai numerosi mutamenti di cui l’uomo per buona parte è responsabile e colpevole, obliando con tremenda facilità la sua appartenenza alla Natura, vertice del creato, sapendo dimorare superbamente in fondo alla classifica.
O meglio, se da una parte, nella produzione poetica di Fabio, soprattutto in "Fabrica e altre poesie", Ladolfi Editore, 2013, trapela l’immagine di quella parte di umanità “potente”(?) che ha stravolto l’essenza stessa della vita in nome dell’economia, della globalizzazione, delle leggi di mercato con uno spartito nuovo in cui al posto delle note risuona il parossistico spread, dall’altra, emerge quella fetta di “sangue e anima” cui l’Oggi bieco e “malvagio” ha sottratto dignità dalle fondamenta che permettono all’uomo di vivere la “sua” vita in pienezza: il lavoro in estinzione anche nel ricco Nord-Est…e con il lavoro un microcosmo pulsante e vibrante di “appartenenza”, affetti, solidarietà, comunione.
Proprio la “dicitura” di poeta per sottrazione mi ha progressivamente coinvolta in una tensione emotiva che scorre nel verso di Fabio quale cifra emblematica della sua produzione, lungo la terra veneta costellata di immagini ricche di “memoria”, quella che ci fa dire, in piena convinzione, che se siamo qui, è perché siamo La memoria di qualcuno.
Il qualcuno che prima della nuova specie homo consumens oeconomicaes legis servus (per dirla con Ladolfi nella prefazione alla raccolta) «respirava» il campo o la fabbrica in una dimensione osmotica lungi dalle fratture ad venienti.
Lirica dopo lirica ci si addentra nella storia di un universo scomparso, e di uno che fagocita e colpisce l’uomo con artiglio mortale, in frammenti che scorrono, in immagini che alternano la simbologia del presepe e il segno della croce ai cartelloni dai caratteri cubitali con su scritto “Vendesi/ Fitasi Capannoni”…in quel soporoso e molle dialetto veneto che scandisce la realtà sul foglio bianco, quasi garante dello stretto, imprescindibile rapporto tra logos e bios….
E nel polverone dell’Italia in frantumi, par quasi di sentire la tosse dell’anima, scomoda e catarrosa dei privati della spes e della loro dignità di persone. Ma una lettura “piena” del Franzin ci obbliga ad andare oltre, a imboccare i sentieri di un poetare che guarda ai grandi del Novecento, alla scrittura pavesiana “in sofferenza”, quella che tutti abbiamo mandato a memoria nel mirabile un paese ci vuole, non fosse che per il gusto di andarsene recante in sé l’istanza del ritorno.
Nella mattina copiosa di pioggia, la voce di Fabio si sovrappone alla mia e a quella del lettore, nella decifrazione di simboli esistenziali che riescono a dipingere la tristezza metafisica del vivere questo scampolo di tempo che ci è concesso e dentro il quale siamo capitati in virtù di una rilettura coraggiosa e autentica che può nascere soltanto da chi dentro il “fuoco” ci vive tutti i giorni e dove nel calendario non ci abitano neppure più i santi.
(Commento di Cristina Raddavero)

 

LA SILLOGE**

 

Marta l’à quarantatrè àni.
Da vintizhinque ‘a grata
cornìse co’a carta de véro,
el tanpón, ‘a ghe russa via
‘a vernìse dura dae curve

del ‘egno; e ghe ‘à restà
come un segno tee man:
carézhe che sgrafa, e onge
curte, da òn. I só bèi cavéi
biondi e bocoeósi i ‘é ‘dèss

un grop de spaghi stopósi
che nissùna peruchièra pòl
pì tornàr rizhàr. Co’a cata
‘e só care amighe maestre
o segretarie, ghe par che

‘e sie tant pì zóvene de ea,
‘a ghe invidia chee onge
cussì rosse e longhe, i cavéi
lissi e luminosi, chii déi
ben curàdhi, co’ i sii pàra

drio ‘e rece, i recìni. Le
varda e spess ‘a pensa
al só destìn: tuta ‘na vita
persa a gratàr, a gratarse
via dal corpo ‘a beézha.

Marta ha quarantatre anni. / Da venticinque / leviga cornici col tampone, / la carta abrasiva, con questi umili strumenti frega / la vernice dura nelle modanature // del legno; e le è rimasto / come un segno nelle mani: / carezze che graffiano, e unghie / tozze, da uomo. I suoi bei capelli / biondi e ondulati sono ormai // un groviglio di spaghi stopposi / che nessuna parrucchiera potrà / più rimodellare. Quando incontra / le sue coetanee, maestre / o segretarie, le sembrano // tanto più giovani, / le invidia quelle unghie / così rosse e lunghe, i capelli / lisci e luminosi, quelle dita / ben curate, quando se li scostano // dietro le orecchie, gli orecchini. Le / osserva e spesso pensa / al suo destino: tutta una vita / persa a grattare, a grattarsi via dal corpo la bellezza.

Me despiase

Ieri, el kosovaro che ‘l lavora co’ mì
el me ‘à domandà se podhée prestarghe
zhinquanta euro, el se vardéa tii pie

pa’ far su ‘l coràjo de chee paròe
chissà par quant rumegàdhe – lo sa
che ‘ò dó fiòi, el mutuo pa’a casa

e tut el resto – e za ‘l savéa, son sicuro
anca ‘a mé risposta, parché no’l se ‘à
ciapàdha, sì, sì, certo, capisco l’à dita

sgorlàndo ‘a testa intànt che ‘ndessi
verso i reparti, i guanti strenti tea man.
Però mi nò che no’ lo riconossée pì

co’là che ghe ‘à tocà dir mi dispiace
proprio co’ ièra drio sonàr ‘a sirena
e no’ restéa tenpo nianca pa’a vergogna.

Mi dispiace
Ieri, il kosovaro che lavora con me / mi ha chiesto se potevo imprestargli / cinquanta euro, si guardava nei piedi // mentre formulava quella sua richiesta / chissà quanto a lungo meditata – lo sa / che ho due figli il mutuo per la casa // e tutto il resto – e sono sicuro conoscesse / anche la mia risposta perché non se l’è /  presa
sì, sì, certo, capisco continuava // a dire scrollando la testa, intanto che ci avviavamo / verso i reparti, stretti i guanti nella mano. / Però io no che non lo riconoscevo // quello che ha dovuto dire mi dispiace / proprio quando suonava la sirena / e non c’era più tempo neanche per la vergogna.

Artù

El scavo l’é quel pa’e fondamenta,
un buso grando, largo, scuro; in banda
‘na mùtera de tèra smossa come quea
che buta su ‘e rùmoe tel prà. Lo varde

in fra un sbrègo del teo aranción tut
a busi del rezhinto, te ‘sti dì de vent
e gèo. Tea mùtera dura come cròdha
calche murèr l’à piantà là un badhìl.

No’é pì tenpi de fàvoe e lejende, lo
so, e so che l’Artù che un dì cavarà
via el badhìl daa tèra ‘l sarà albanese
o romeno, fòra règoea, pagà in nero,

e so che no’l deventarà re, dopo, che
no’l podharà portar pase e ben, salvar
un regno in crisi. Resta chel pal sbiègo
come orméjo pa’ picàr i nòvi s.ciavi.

Artù
Lo sterro è quello per le fondamenta, / uno scavo ampio, largo, oscuro; accanto / un monticello di terra smossa come quella / ammucchiata dalle talpe in un prato. Lo spio // fra uno squarcio del telo arancione / bucherellato della recinzione, in questi giorni di vento / e gelo. Nella collinetta dura come pietra / qualche muratore vi ha conficcato un badile. // Non sono più tempi di favole e leggende, lo / so, e so che l’Artù che un giorno estrarrà / il badile dalla terra sarà albanese / o romeno, fuori regola, pagato in nero, // e so che non diventerà re, dopo, che / non avrà il potere di recar pace e benessere, salvare / un regno in crisi. Resta quel palo obliquo / come ormeggio per incatenare i neoschiavi.

** Da Fabrica e altre Poesie -Ladolfi editore, 2013 - Poesie pubblicate su richiesta dell'autore

 

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